martedì 12 gennaio 2016

Bruno Epifani, poeta sospeso dell'oltre. La recensione di Anna Stomeo alla poesia di Bruno Epifani

BRUNO EPIFANI poeta sospeso dell’oltre

L’esperienza poetica di Bruno Epifani fu breve e intensa, bruscamente interrotta dalla malattia e dalla morte, intervenute, come sempre, ‘sul più bello’, proprio quando, in lui, maturazione e maturità stavano per convergere completamente, concretizzandosi in una produzione poetica sempre più consapevole e complessa.

Nato a Novoli (Lecce) nel 1936, morì nel 1984 a 48 anni, lasciandosi alle spalle, insieme ad una giovane moglie e due figlie bambine, un percorso di vita non certo lineare e scontato, nel quale la poesia era stata idea mitica e costante apprendistato, universo esistenziale da costruire e costruirsi intorno come ipotesi alternativa al quotidiano, come via di fuga e, nello stesso tempo, di permanenza.

Bruno aveva gli occhi azzurri e limpidi che guardavano lontano per vedere oltre la vita pigra e assonnata della provincia salentina, perciò, sin da giovanissimo, come tanti della sua generazione, si era impegnato a promuovere nel suo paese circoli culturali e iniziative di rinascita e di riscatto, con risultati spesso positivi, ma mai, per lui, pienamente soddisfacenti. 

Dopo la laurea in lettere, con una tesi su Tommaso Fiore (già allora mitica figura di intellettuale meridionale e meridionalista) aveva scelto l’insegnamento non solo come unica via di sopravvivenza, ma anche come umile esercizio etico, giacché aveva scelto anche di insegnare in quelle che, ancora negli anni Sessanta del secolo scorso, la scuola italiana istituiva come “classi differenziate” destinate agli “svantaggiati” dalla natura e soprattutto dalla società. 

Poi, dalla metà degli anni Settanta, Bruno decide di insegnare nelle scuole italiane all’estero e si trasferisce prima a Il Cairo nel 1975, dove lo segue la moglie con le due bambine, e poi a Barcellona. Non una fuga, ma una sorta di esilio volontario scelto quasi come espiazione di una colpa di appartenenza di cui Bruno si sentiva, allo stesso tempo, artefice e vittima. Un rapporto che, semplicisticamente. potremmo definire di odio-amore con la sua terra, storicamente e sociologicamente troppo ”connotata”, ma che in realtà è, a guardar bene, un rapporto con se stesso con le proprie aspirazioni, le proprie vittorie e le proprie sconfitte, le proprie battaglie.  

Autore di tre raccolte edite, di cui una sola in vita (Epistolario Salentino, Lecce,1967, Editrice L’Orsa Maggiore) e due postume (Una terra d’origine, Caprarica di Lecce, 1986, Editrice Pensionante de’ Saraceni e Alle radici di Eva Lecce 2014, Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l.) entrambe dovute alla cura amorevole della moglie Maria Rosaria Savoia, Bruno Epifani appare un poeta sospeso, che avrebbe ancora avuto molte parole da scoprire e da offrire a chi, leggendolo oggi, non può sottrarsi alla percezione di una sottigliezza semantica e di una ricercata eleganza stilistica, tanto da avere l’impressione di trovarsi di fronte a un poeta colto e vigile, attento a coniugare costantemente l’ispirazione alla sperimentazione e alla ricerca linguistica.

Proprio perciò Epifani non è poeta facilmente collocabile anche all’interno di una presupposta “linea salentina”, che, secondo una formula di Ennio Bonea, accomuna, in un unico universo semantico e immaginativo, quei poeti che, sulla scia di Vittorio Bodini, hanno guardato al Sud come “zona di comune attingimento” e come luogo esistenziale ritrovato e costruito di visioni e passioni. 

Il piano simbolico, codificato dal linguaggio, definisce in realtà un sistema di rapporti economici e sociali concreti relativi al Sud del secolo scorso cui molti Autori Salentini, capofila Bodini, fanno riferimento. Il rischio dell’approccio del lettore a questo Sud e a questa poesia (per Epifani in particolare mi riferisco alla Terra d’origine) è quello di rinchiudere i singoli poeti all’interno di etichette collettive limitanti da cui si esce soltanto con l’analisi testuale specifica guardando all’universo poetico del singolo Autore. Esattamente quello che abbiamo cercato di fare con questo approccio analitico ai testi di Bruno Epifani, un approccio alimentato tuttavia da una lettura creativa e coinvolgente, attuata attraverso gli strumenti della ricerca e della sperimentazione teatrale, che ci consente di cogliere l’eco individuale e collettiva dei versi di Epifani

Sicuramente il Sud di Epifani è popolato, in maniera quasi ossessiva, dai fantasmi bodiniani, (dalle donne nere ai tramonti infuocati), specialmente nelle prime due raccolte, tuttavia c’è, nella poesia di Epifani, un’inquietudine che va sicuramente al di là delle immagini evocative per farsi riflessione autentica sullo stare e l’andare, sulla permanenza e il viaggio, sulla terra d’origine e la terra straniera di accoglienza e rifugio, percepiti come dilemmi dell’animo più che come semplici scelte, al di là delle collocazioni geografiche ed esistenziali.

In questo senso il Sud di Epifani è tutto collocato all’interno di una dinamica dell’essere che coincide con l’universale e l’antropologico, fino a proporsi, nello stesso tempo, come meditazione profonda, come atto valutativo, come esercizio d’incanto/disicanto che si fa intima considerazione sulla vita.
Ed è proprio questa raccolta a dimostrarlo. L’ultima, purtroppo, dopo le prime due, che ci viene ora consegnata in questa edizione con la prefazione di Carlo Alberto Augieri, in cui, già nel titolo, Alle radici di Eva, si fa deciso e determinato il richiamo antropologico e si conferma definitivamente l’archetipo della terra d’origine della precedente seconda raccolta.

Per Epifani, come già, a suo tempo, ha sottolineato Ennio Bonea nella Introduzione a Una terra d’origine,  la terra rappresenta una sorta di anello di connessione, di momento centrale nel trinomio donna-terra-mare che sembra essere alla base dell’ispirazione del poeta salentino e che comunque si lega ad una percezione poetica diffusa nel contesto poetico immaginativo di molto Novecento e non solo. Dalla terra muove infatti un’esigenza cognitiva che si realizza attraverso l’inevitabile richiamo erotico alla donna, come soggetto altro di un’intima comunicazione, e al mare come simbolo, diremmo freudiano, di instabilità e di certezza primigenie.

Le 25 poesie di questa raccolta sono tutte, in modo evidente, dedicate ad una donna che si percepisce, a intermittenze, lontana e vicina, poesie che la moglie Maria Rosaria (che con quella donna è identificata e si identifica) ha conservato per trent’anni come intimo e personale segreto, fino a decidersi, se non a rivelarlo, sicuramente a comunicarlo, come tale, come semplice e indecifrabile segreto, oggi a tutti noi. Le “radici di Eva” si intuiscono nella bellissima introduzione della stessa Maria Rosaria alla raccolta quando afferma, con profonda semplicità, di essere rasserenata dal “pensiero che un poco seppe dare lenimento ai suoi tormenti la concretezza della mia presenza”. Dice proprio così, richiamando un passaggio di una poesia scritta al Cairo (tu soltanto concreta sei e certa in me ). Ma le “radici di Eva” richiamano anche un universo semantico che ci riporta direttamente alla “costruzione del senso”. 

Come spiega acutamente Carlo Alberto Augieri, nella profonda e analitica Prefazione, il lessema “radice” costituisce una “parola emblematica” per comprendere la poesia di Epifani nella sua interezza, nel suo essere mossa dall’ansia di un ritorno ancestrale all’origine, alla “verità profonda dell’animo”. Dunque le “radici di Eva”, come anche il richiamo archetipico ad Adamo, sottolinea Augieri, non sono simboli di un rimpianto Paradiso terrestre, ma condizioni permanenti di un esistere consapevolmente dopo la caduta del Paradiso terrestre, spingendosi verso una terra promessa che si identifica con la costruzione  del senso. Il che fa di Epifani, per alcuni aspetti, un poeta postmoderno dell’oggi, che, come sottolinea ancora Augieri, parla a un tu per parlare al mondo e intuisce e concretizza l’alterità, oltre l’identità conclamata della terra d’origine, oltre il rischio di una chiusura di orizzonti all’interno di un universo immaginativo peraltro scomparso.

Il Sud di Epifani è, come quello di Bodini, un luogo dell’anima (per dirla con James Hillman ) e questo luogo dell’anima SI RIGENERA ogni volta trasmettendosi alle nuove generazioni. 

C’è una vena, nella poesia di Epifani, che, filosoficamente, mi piace definire esistenzialista, relativa alle considerazioni sull’esistente e sul nostro “essere gettati” nel nulla dal nulla, intenti a quella che Heiddeger definisce la cura. È vero che, come dice Augieri, “la ragione dei poeti non è il logos dei filosofi», ma c’è tuttavia un’esigenza di riferimenti più ampi quando ci si accosta alla poesia, specialmente a quella del secondo Novecento Salentino, quasi la necessità di spiegare, per evitare il rischi di anguste collocazioni.

Nell’ultima poesia della raccolta, dedicata all’amico Carlo Alberto (Augieri), a sua volta prefatore della raccolta, Epifani si appella, senza infingimenti, ad una “pietà di vivere”, sia pure definita “furtiva”, come unico sbocco alla «Nuova Angoscia – carcere alla nostra anima- che ci giace a fianco», all’ «ineluttabile trascorre(re)» del «nostro giorno infingardo», della «precaria» «nostra sorte di uomini».


Un messaggio finale struggente e denso in cui si concentra il senso universale  di quell’inquietudine dello «zingaro dagli occhi celesti» come lo definisce ancora la moglie,  la sua «indomita follia di inseguire sempre il suo destino» e «a dare voce alle sue pene e a quelle del mondo che lo circondava».

C’è, per la forza degli eventi, ma anche per una scelta personale, un senso del fare poesia che scaturisce solo dalla morte e dal silenzio, come dice Andrea Zanzotto. Questo senso è recuperabile a nostro avviso facendo appello a quella compresenza dei morti e dei viventi di cui in altri contesti parlava Aldo Capitini. I versi di Bruno parlano di per sé, indipendentemente da ciò che noi ci costruiamo attorno.

Una volta che il tempo ha fatto il suo lavoro, delle sofferenze di Bruno non rimangono che questi versi, limati, eleganti ai quali lui ha consegnato la sua memoria.

Non le altre sofferenze, gli altri abbandoni a cui la vita, quando c’era, lo ha costretto.

UN POETA CHEDE DI ESSERE GIUDICATO PER I SUOI VERSI.

Il maledettismo di Bruno Epifani, se c’è, è autentico, perché pura coincidenza di poesia e vita.
E anche la storia del Salento, che compare continuamente tra i versi, è richiamo ancestrale più che sola memoria: i Turchi saraceni, i Messapi, lo Jonio antico sono miti che popolano il presente senza la pretesa di spiegare il passato, sono personaggi di quell’altrove la cui scena Epifani continua ad abitare, nel suo andare ormai eterno  «sulle rotte della terra promessa».

Anna Stomeo - luglio 2015