BRUNO
EPIFANI poeta sospeso dell’oltre
L’esperienza poetica di
Bruno Epifani fu breve e intensa, bruscamente interrotta dalla malattia e dalla
morte, intervenute, come sempre, ‘sul più bello’, proprio quando, in lui,
maturazione e maturità stavano per convergere completamente, concretizzandosi in
una produzione poetica sempre più consapevole e complessa.
Nato a Novoli (Lecce)
nel 1936, morì nel 1984 a 48 anni, lasciandosi alle spalle, insieme ad una
giovane moglie e due figlie bambine, un percorso di vita non certo lineare e
scontato, nel quale la poesia era stata idea mitica e costante apprendistato,
universo esistenziale da costruire e costruirsi intorno come ipotesi
alternativa al quotidiano, come via di fuga e, nello stesso tempo, di
permanenza.
Bruno aveva gli occhi
azzurri e limpidi che guardavano lontano per vedere oltre la vita pigra e assonnata della provincia salentina, perciò,
sin da giovanissimo, come tanti della sua generazione, si era impegnato a
promuovere nel suo paese circoli culturali e iniziative di rinascita e di
riscatto, con risultati spesso positivi, ma mai, per lui, pienamente
soddisfacenti.
Dopo la laurea in lettere, con una tesi su Tommaso Fiore (già
allora mitica figura di intellettuale meridionale e meridionalista) aveva
scelto l’insegnamento non solo come unica via di sopravvivenza, ma anche come
umile esercizio etico, giacché aveva scelto anche di insegnare in quelle che,
ancora negli anni Sessanta del secolo scorso, la scuola italiana istituiva come
“classi differenziate” destinate agli “svantaggiati” dalla natura e soprattutto
dalla società.
Poi, dalla metà degli anni Settanta, Bruno decide di insegnare
nelle scuole italiane all’estero e si trasferisce prima a Il Cairo nel 1975,
dove lo segue la moglie con le due bambine, e poi a Barcellona. Non una fuga,
ma una sorta di esilio volontario scelto quasi come espiazione di una colpa di
appartenenza di cui Bruno si sentiva, allo stesso tempo, artefice e vittima. Un
rapporto che, semplicisticamente. potremmo definire di odio-amore con la sua
terra, storicamente e sociologicamente troppo ”connotata”, ma che in realtà è, a guardar bene, un rapporto con se
stesso con le proprie aspirazioni, le proprie vittorie e le proprie sconfitte,
le proprie battaglie.
Autore di tre raccolte
edite, di cui una sola in vita (Epistolario
Salentino, Lecce,1967, Editrice L’Orsa Maggiore) e due postume (Una terra d’origine, Caprarica di Lecce,
1986, Editrice Pensionante de’ Saraceni e Alle
radici di Eva Lecce 2014, Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l.) entrambe
dovute alla cura amorevole della moglie Maria Rosaria Savoia, Bruno Epifani
appare un poeta sospeso, che avrebbe
ancora avuto molte parole da scoprire e da offrire a chi, leggendolo oggi, non
può sottrarsi alla percezione di una sottigliezza semantica e di una ricercata
eleganza stilistica, tanto da avere l’impressione di trovarsi di fronte a un
poeta colto e vigile, attento a coniugare costantemente l’ispirazione alla
sperimentazione e alla ricerca linguistica.
Proprio perciò Epifani
non è poeta facilmente collocabile anche all’interno di una presupposta “linea
salentina”, che, secondo una formula di Ennio Bonea, accomuna, in un unico
universo semantico e immaginativo, quei poeti che, sulla scia di Vittorio
Bodini, hanno guardato al Sud come “zona di comune attingimento” e come luogo esistenziale
ritrovato e costruito di visioni e passioni.
Il piano simbolico,
codificato dal linguaggio, definisce in realtà un sistema di rapporti economici
e sociali concreti relativi al Sud del secolo scorso cui molti Autori
Salentini, capofila Bodini, fanno riferimento. Il rischio dell’approccio del
lettore a questo Sud e a questa poesia (per Epifani in particolare mi riferisco
alla Terra d’origine) è quello di rinchiudere i singoli poeti all’interno di
etichette collettive limitanti da cui si esce soltanto con l’analisi testuale
specifica guardando all’universo poetico del singolo Autore. Esattamente quello
che abbiamo cercato di fare con questo approccio analitico ai testi di Bruno
Epifani, un approccio alimentato tuttavia da una lettura creativa e
coinvolgente, attuata attraverso gli strumenti della ricerca e della
sperimentazione teatrale, che ci consente di cogliere l’eco individuale e
collettiva dei versi di Epifani
Sicuramente il Sud di
Epifani è popolato, in maniera quasi ossessiva, dai fantasmi bodiniani, (dalle donne nere ai tramonti infuocati), specialmente nelle prime due raccolte,
tuttavia c’è, nella poesia di Epifani, un’inquietudine che va sicuramente al di
là delle immagini evocative per farsi riflessione autentica sullo stare e l’andare, sulla permanenza e il viaggio, sulla terra
d’origine e la terra straniera di accoglienza e rifugio,
percepiti come dilemmi dell’animo più che come semplici scelte, al di là delle
collocazioni geografiche ed esistenziali.
In questo senso il Sud
di Epifani è tutto collocato all’interno di una dinamica dell’essere che
coincide con l’universale e l’antropologico, fino a proporsi, nello
stesso tempo, come meditazione profonda, come atto valutativo, come esercizio
d’incanto/disicanto che si fa intima
considerazione sulla vita.
Ed è proprio questa
raccolta a dimostrarlo. L’ultima, purtroppo, dopo le prime due, che ci viene ora
consegnata in questa edizione con la prefazione di Carlo Alberto Augieri, in
cui, già nel titolo, Alle radici di Eva,
si fa deciso e determinato il richiamo antropologico e si conferma
definitivamente l’archetipo della terra
d’origine della precedente seconda raccolta.
Per Epifani, come già,
a suo tempo, ha sottolineato Ennio Bonea nella Introduzione a Una terra
d’origine, la terra rappresenta una
sorta di anello di connessione, di momento centrale nel trinomio donna-terra-mare che sembra essere alla base
dell’ispirazione del poeta salentino e che comunque si lega ad una percezione
poetica diffusa nel contesto poetico immaginativo di molto Novecento e non
solo. Dalla terra muove infatti
un’esigenza cognitiva che si realizza attraverso l’inevitabile richiamo erotico
alla donna, come soggetto altro di
un’intima comunicazione, e al mare
come simbolo, diremmo freudiano, di instabilità e di certezza primigenie.
Le 25 poesie di questa
raccolta sono tutte, in modo evidente, dedicate ad una donna che si percepisce,
a intermittenze, lontana e vicina, poesie che la moglie Maria
Rosaria (che con quella donna è identificata e si identifica) ha conservato per
trent’anni come intimo e personale segreto,
fino a decidersi, se non a rivelarlo, sicuramente a comunicarlo, come tale,
come semplice e indecifrabile segreto,
oggi a tutti noi. Le “radici di Eva” si intuiscono nella bellissima
introduzione della stessa Maria Rosaria alla raccolta quando afferma, con
profonda semplicità, di essere rasserenata dal “pensiero che un poco seppe dare
lenimento ai suoi tormenti la concretezza della mia presenza”. Dice proprio
così, richiamando un passaggio di una poesia scritta al Cairo (tu soltanto concreta sei e certa in me ).
Ma le “radici di Eva” richiamano anche un universo semantico che ci riporta
direttamente alla “costruzione del senso”.
Come spiega acutamente
Carlo Alberto Augieri, nella profonda e analitica Prefazione, il lessema “radice” costituisce una “parola
emblematica” per comprendere la poesia di Epifani nella sua interezza, nel suo
essere mossa dall’ansia di un ritorno ancestrale all’origine, alla “verità
profonda dell’animo”. Dunque le “radici di Eva”, come anche il richiamo
archetipico ad Adamo, sottolinea Augieri, non sono simboli di un rimpianto Paradiso
terrestre, ma condizioni permanenti di un esistere consapevolmente dopo la caduta del Paradiso terrestre,
spingendosi verso una terra promessa
che si identifica con la costruzione del senso. Il che fa di Epifani, per
alcuni aspetti, un poeta postmoderno
dell’oggi, che, come sottolinea ancora Augieri, parla a un tu per parlare al mondo e intuisce e concretizza l’alterità, oltre l’identità conclamata
della terra d’origine, oltre il rischio di una chiusura di orizzonti
all’interno di un universo immaginativo peraltro scomparso.
Il Sud di Epifani è,
come quello di Bodini, un luogo dell’anima (per dirla con James Hillman ) e
questo luogo dell’anima SI RIGENERA ogni volta trasmettendosi alle nuove
generazioni.
C’è una vena, nella
poesia di Epifani, che, filosoficamente, mi piace definire esistenzialista, relativa alle considerazioni sull’esistente e sul
nostro “essere gettati” nel nulla dal nulla, intenti a quella che Heiddeger
definisce la cura. È vero che, come
dice Augieri, “la ragione dei poeti non è il logos dei filosofi», ma c’è tuttavia un’esigenza di riferimenti più
ampi quando ci si accosta alla poesia, specialmente a quella del secondo
Novecento Salentino, quasi la necessità di spiegare,
per evitare il rischi di anguste collocazioni.
Nell’ultima
poesia della raccolta, dedicata all’amico Carlo Alberto (Augieri), a sua volta
prefatore della raccolta, Epifani si appella, senza infingimenti, ad una “pietà
di vivere”, sia pure definita “furtiva”, come unico sbocco alla «Nuova Angoscia
– carcere alla nostra anima- che ci giace a fianco», all’ «ineluttabile
trascorre(re)» del «nostro giorno infingardo», della «precaria» «nostra sorte di uomini».
Un messaggio finale struggente e denso in cui si
concentra il senso universale di quell’inquietudine dello «zingaro dagli
occhi celesti» come lo definisce ancora la moglie, la sua «indomita follia di inseguire sempre il
suo destino» e «a dare voce alle sue pene e a quelle del mondo che lo
circondava».
C’è,
per la forza degli eventi, ma anche per una scelta personale, un senso del fare
poesia che scaturisce solo dalla morte e dal silenzio, come dice Andrea
Zanzotto. Questo senso è recuperabile a nostro avviso facendo appello a quella
compresenza dei morti e dei viventi di cui in altri contesti parlava Aldo
Capitini. I versi di Bruno parlano di per
sé, indipendentemente da ciò che noi ci costruiamo attorno.
Una
volta che il tempo ha fatto il suo lavoro, delle sofferenze di Bruno non
rimangono che questi versi, limati, eleganti ai quali lui ha consegnato la sua
memoria.
Non
le altre sofferenze, gli altri abbandoni a cui la vita, quando c’era, lo ha
costretto.
UN
POETA CHEDE DI ESSERE GIUDICATO PER I SUOI VERSI.
Il
maledettismo di Bruno Epifani, se
c’è, è autentico, perché pura coincidenza di poesia e vita.
E anche la storia del Salento, che compare continuamente tra i versi, è richiamo ancestrale più che sola memoria: i Turchi
saraceni, i Messapi, lo Jonio antico sono miti che popolano il presente senza la pretesa di spiegare il passato, sono personaggi di quell’altrove la cui scena Epifani continua ad
abitare, nel suo andare ormai eterno «sulle
rotte della terra promessa».