domenica 17 luglio 2016

Nel Palazzo Ducale di Martano rivive Lectura Dantis: Inferno di Itaca Min Fars Hus

 
A Martano, nella suggestiva cornice del Palazzo Ducale, è andata in scena martedì 5 luglio Lectura Dantis di Itaca Min Fars Hus, il tentativo di costruire uno spazio scenico visivo/sonoro in cui i versi di Dante, nella loro grandezza, risuonino noti e ignoti nello stesso tempo.

Uno spazio ristretto e definito che gli attori abitano insieme agli spettatori in una concomitanza che si fa spettacolo, in un gioco di coincidenze e opposizioni che procede attraverso libere associazioni, guidate dalla lingua universale e a-sincronica del Poeta..

In una sera d’estate ci si incontra per leggere ed evocare l’Inferno di Dante in un luogo conosciuto che si fa misterioso, dove i corpi degli attori diventano figure, le voci giocano con il canto e il suono e la musica delinea spazi altri e inquietanti
Lectura Dantis riprende una ormai “storica” sperimentazione realizzata da Itaca Min Fars Hus nel lontano 2004, proprio nello stesso palazzo ducale di Martano: un ritorno nello stesso luogo, diventato nel frattempo più risaputo e palese, ma sempre enigmatico e denso di mistero, dove evocare l’Inferno di Dante come necessità etica, capace di incidere ancora sulle nostre coscienze. come una lama.

Ignavi, lussuriosi, ladri, fraudolenti e traditori sfilano in un gioco sonoro di visioni e suggestioni, di parole e di suoni, di ombre bianche e rosse, evocate appositamente dall’immaginario collettivo dell’Inferno dantesco. 

Il canto e il suono si fanno eccedenti e travalicano la forma, oltre l’atteso e il convenzionale.

Il viaggio di Dante comincia da una discesa, un’immersione nel luogo più buio della coscienza per poi farsi risalita verso la luce.

Qui abbiamo voluto soffermarci su alcuni momenti più significativi e noti del passaggio di Dante tra i cerchi infernali, dove la struttura morale dell’intero poema pone le sue basi più  solide.

Dante “visionario” mette in scena l’orrore del male del mondo nelle sue più terribili e funeste incarnazioni. La tensione morale si fa allora molto alta e la narrazione si amplifica in una pluralità di stili che le voci degli attori sembrano inseguire in un gioco incessante di richiami ancestrali e di devozione, come unica cifra plausibile per giustificare l’approccio ad una materia di per sé cosi eccelsa.

Itaca Min Fars Hus ritorna all’Inferno di Dante con una lectura che vuole essere la ridefinizione di alcune fondamentali possibilità attoriali, in direzione di una ricerca costante di momenti altri di creatività e di creazione.

Una ricerca sul campo affidata unicamente alla complicità dello spettatore, alla sua presenza presente che accoglie le sollecitazioni a entrare nella struttura caleidoscopica della Commedia di Dante attraverso la suggestione e l’incanto della parola, di cui gli attori, con i loro corpi, si fanno umilmente carico.


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domenica 5 giugno 2016

Recensione a Franco Melissano, "I Giorni ed i Versi Poesie": Il Viaggiatore del Tempo e la Poesia.



Il Viaggiatore del Tempo e la Poesia
recensione a Franco Melissano, I Giorni ed i Versi Poesie, 2016

di Anna Stomeo 

I Giorni ed i Versi è il titolo che Franco Melissano ha dato alla sua ultima raccolta di poesie, un titolo che intende testimoniare di un legame tutt’altro che scontato tra il tempo e la poesia e che l’Autore ha scelto, probabilmente, per sottolineare la  diversa dimensione poetica di questa raccolta, rispetto alle sue due precedenti, non solo per la preferenza della lingua italiana, ma per una più intensa connotazione lirica che qui sembra spingerlo sino ai confini del proprio universo conoscitivo. 
 I richiami semantici dei due lessemi (Giorni e Versi) sembrano, infatti, voler mettere in discussione la diacronia stessa del discorso poetico e dell’intera raccolta: quel Versi al plurale, che segue a Giorni e che dovrebbe indicare la poesia (esserne sinonimo), in realtà diventa, appunto, un indicatore di di-verse direzioni di indagine, quelle che il poeta segue nello scorrere dei Giorni, del Tempo, e che lo rivela a se stesso, e al lettore, in termini di inquietudine, ma non di incoerenza. 
I Giorni ed i Versi diventa così un viaggio nel tempo che non ha nulla di nostalgico e che il poeta compie per disvelare i misteri della poesia. Il poeta si fa viaggiatore di un tempo mitico, fatto di eterni ritorni, nel quale la ricerca poetica si trasforma in bisogno esistenziale, in ricerca dell’ignoto, come nella quête degli antichi cavalieri erranti.  
Ogni volta che ci ritroviamo tra le mani un libro di poesia, come questo di Franco Melissano, ci chiediamo inevitabilmente che cosa lo abbia prodotto, specialmente quando conosciamo l’Autore e sappiamo che svolge un’altra attività, estremamente lontana dalla poesia o da quello che riteniamo significhi l’essere poeti. Inevitabilmente finiamo col chiederci da dove venga la poesia, se non sia un’illuminazione che sceglie alcuni predestinati o, piuttosto, un divertissement che consente un’evasione dal quotidiano, o ancora, forse, una ricerca, un esercizio di conoscenza attraverso la parola.  
Quando poi, dopo una prima occhiata, data di sfuggita ai versi che scorrono lungo le pagine bianche, cominciamo ad entrare nel testo e a leggerlo più approfonditamente, allora ci accorgiamo di essere entrati in un mondo definito e compiuto in se stesso, un mondo non casuale, ma costruito ad hoc, un mondo da accogliere, in tutto o in parte, per come è o da rifiutare, in tutto o in parte, per come non è. In definitiva, nel momento in cui entriamo nel testo, cioè lo leggiamo con un livello più intenso di attenzione e di partecipazione, ci accorgiamo che si tratta di un sistema perfettamente ordinato al suo interno e che il nostro semplice approcciarci ad esso, attraverso la lettura, provando emozioni o facendo riflessioni, costituisce di per sé un esercizio critico. Come affermava Attilio Momigliano “Leggere è scoprire la poesia: perciò la lettura è il principio della critica.”
Ma questo esercizio critico a che serve se non a tentare di capire la natura della poesia? Molti di noi possono pensare che la poesia, avendo a che fare con le parole, abbia anche a che fare con la letteratura. Non sempre è cosi, perché la poesia abbraccia uno spazio più ampio della letteratura, nasce con la musica, alla quale fin dall’antichità si è accompagnata (per separarsene definitivamente solo con la nascita della stampa) e coinvolge non solo la parola, ma il respiro. La poesia nasce come nasce il respiro: senza che ce ne accorgiamo. Per questo la poesia riguarda tutti e non solo i letterati, la poesia nasce perché il ritmo del respiro cambia in seguito a qualcosa che ti sorprende. La poesia nasce, letteralmente, da un’ispirazione, da un cambio del respiro, da un trauma che ti sconvolge (un fatto, un evento, un’immagine, uno sguardo). La poesia denomina il mondo e le cose in modo nuovo attraverso l’esperienza poietica (pratica) del linguaggio, un lavoro, un fare sul linguaggio che spinge a ricercare le parole adeguate per esprimere l’incanto. 
La poesia è in stretta relazione con la percezione del tempo (che contribuisce a dilatare) e con la conoscenza (che contribuisce ad approfondire). Tempo e conoscenza sembrano i punti di riferimento costanti del fare poesia, del poiein. Troppo spesso ci ripetiamo che la poesia è sostanzialmente scavo, non lenimento. né tantomeno salvezza, ma ricerca sofferta di armonia, strutturazione dell’indicibile e dell’invisibile.
(Recita Montale: “io sono amico dell’invisibile/e non faccio conto/ che di ciò che si fa sentire e non si mostra/ e non credo e non posso credere/ a tutto quello che si tocca/ e che si vede”)
Questo invisibile che affiora dai versi di ogni poeta e ciò che consente alla poesia di superare il terreno propriamente letterario per farsi comunicazione soggettiva, allusiva, figurata, in definitiva arte. E in quanto arte la poesia è passione, nel senso più ‘assoluto’ del termine, è sofferenza, trasporto, struggimento, impulso e tormento come nell’amore. E i poeti sono innanzitutto amanti della poesia, amano la poesia come oggetto del desiderio e da questo amore vengono spesso travolti in un turbine di sensazioni talvolta scomposte, incontrollabili. 
Franco Melissano, invece, non è solo amante della poesia, ma è poeta rigoroso che rifinisce e perfeziona i propri versi, è poeta consapevole delle valenze altre della parola poetica, alla quale  si affida e alla quale affida le proprie intime riflessioni. È poeta colto, animato da frequentazioni e suggestioni classiche che si fanno vere e proprie citazioni, quando da un verbo o solo da un’assonanza, riecheggiano antiche espressioni figurate (Quale colomba che ritorna al nidoQuando per sempre chiusi gli occhi al giorno…) o note figure di suono  e di significato.
La raccolta si articola in due sezioni, apparentemente distanti per ispirazione e per soggetto. 

Nella prima sezione, Canto di Sirena,  compaiono venti poesie d’amore, come recita il sottotitolo, tutte dedicate (a quanto si evince dal susseguirsi logico e, soprattutto, dialogico dei componimenti) ad una sola e unica donna, la compagna di una vita, archetipo, poeticamente e poieticamente,  di una sensualità continuamente ricercata e puntualmente ritrovata nel tempo e negli anni, quasi come pegno di un intenso sentimento amoroso che  attraversa e supera la dimensione del tempo. Si veda a questo proposito Gorgoglia la tua voce dove il corpo femminile si rappresenta non solo come forma erotica, ma come suono, come voce, una voce che prolunga il corpo fino a raggiungere l’anima, in un gioco di assonanze. La donna è, in questa sezione della raccolta, presenza costante, del qui ed ora, non presenza/assenza filtrata dalla memoria, come spesso avviene in poesia. Questo appropriarsi del tempo al presente, anche del tempo amoroso, è un modo di nominare il tempo per evitare il diradarsi del ricordo, il suo perdersi nelle nebbie della memoria la quale è, per sua natura, inaffidabile. 

Nella seconda sezione, I giorni ed i versi, che racchiude ben sessantanove poesie, il tempo, invece, emerge in tutta la sua irrimediabilità, come cifra dell’intera raccolta, alimentando con il suo ritmo l’alternarsi delle immagini. Non a caso il raccordo tra la prima e la seconda sezione è dato da una metapoesia (Amata mia poesia) in cui la donna continua a permanere come energia seduttiva e salvifica (O quante, quante volte/con tenerezza antica/sommessamente chiamo/e busso trepidante alla tua porta/ed impaziente attendo/col cuore già grondante/dei dubbi dell’amante), presenza assente di una poesia che si concede “con pietà crudele” . E ciò perché il poeta sembra puntare tutto sul ricordo/raccordo del tempo e dei versi, nel quale la memoria si fa garante di un rapporto autentico con la natura (Echi di sirene) e con la storia (Di nuovo in Palestina torna Erode)

I titoli delle due sezioni risultano dunque molto utili ad un’analisi testuale che tenti di spiegare i meccanismi interni di funzionamento e forse anche le ragioni del fare poesia di Franco Melissano. Il punto di vista del poeta, sospeso tra l’amore e il tempo, si articola in una serie di immagini denotative e di implicazioni connotative che svelano l’intrinseca polisemia e, quindi, l’autentica poesia,  della raccolta. 

Nella prima come nella seconda sezione è possibile cogliere diversi livelli o sistemi del testo che si rapportano tra loro fino a costituire una vera e propria rete di riferimenti interni. Così non solo i versi di Amata mia poesia ricompongono, come si è detto, in unità le due sezioni all’insegna di una poesia-donna metafora dell’unicità di ispirazione, ma anche all’interno di tutta la raccolta si determinano, tra i vari componimenti, rapporti di corrispondenza e di opposizione che nel loro alternarsi contribuiscono alla coerenza del testo e all’organicità dell’interpretazione da parte del lettore. 

Si veda ad esempio il rapporto di corrispondenza che si determina tra Crepuscolo (p.46) e Le tenebre del cuore (p.61): tra i due componimenti non c’è solo corrispondenza tematica (la tristezza che insorge nell’animo e si fa disincanto esistenziale, l’emergere dell’oscurità nella luce), ma anche simbolica (l’immensa rete di ragno che allude palesemente allo spleen di baudelairiana memoria e il buio del grembo materno foriero di luce mentre le tenebre del cuore/accecano il mattino ). 


Gli intrecci e i richiami di significato che si determinano sul piano semantico riguardano, nella seconda sezione, paesaggi indefiniti e onirici (Giardini incantati) che richiamano a loro volta luoghi precisi e definiti (L’Adda, Roma, Maglie, Sant’Andrea….) per dare corpo all’astrattezza dei pensieri (Eternità)  e all’amarezza di alcune riflessioni (Profumo di fiori, Canto).

Franco Melissano sa individuare, nella propria ispirazione poetica, nel proprio fare poesia, tutti gli elementi specifici, i motivi che contribuiscono a comunicare, sul piano del contenuto, quello che ritiene il significato più profondo del proprio messaggio e, nello stesso tempo, sa regolare, sul piano dell’espressione, tutti gli elementi (livelli) retorici, stilistici, linguistici e persino fonico-ritmici, attingendo a piene mani alla propria memoria colta e riecheggiando, volutamente, voci ‘classiche’  che appartengono anche all’immaginario culturale del lettore. Si vedano i richiami perfino leopardiani di Alla luna (p.106) o foscoliani di Quando il grecale gonfia le tue onde (p.102), o quelli pascoliani di Acquazzone d’agosto (p.36) o ancora quelli crepuscolari di Lumini di lucciole (p.103) o di E gonfia e pur dubbiosa (p.105) e perfino quelli ungarettiani di Meriggio d’estate (p.71), di Vento (p.101) o di Malinconia (p.80) e di Giovinezza (p.84) e montaliani di Mentre cala la sera (p.85). L’Autore si muove insomma con estrema sensibilità in un universo stilistico colto e variegato che fornisce, per così dire, l’habitat alla libera espressione delle sue emozioni e delle sue intense riflessioni. 

La profonda attrattiva delle poesie di Melissano sta proprio in questa loro preziosità, in questo essere parole singolari che si disvelano, rivelando lontane suggestioni depositate nel fondo dell’animo umano, ma anche del comune universo culturale mediterraneo, luogo di provenienza e di rivendicata appartenenza dell’Autore, luogo dove il mito si fonde con la storia e l’angoscia si mescola alla tracotanza ed al coraggio: si veda, a questo proposito Ulisse (p.60) che sembra condensare, in un complesso e profondo significato simbolico e tematico, il nucleo essenziale dell’ispirazione poetica di Franco Melissano. Un’ispirazione che si nutre di immagini archetipiche e di riflessioni filosofiche in un afflato poetico originale, giocato sulla struttura ritmica del verso e sulla corrispondenza di campi semantici che estendono e accrescono il significato delle parole.

Se cercassimo in questi versi i rifermenti storico-letterari novecenteschi ‘di cornice’ e, per così dire, ‘di tendenza’, dovremmo fare riferimento sia a quella linea cosiddetta sabiana (che da Umberto Saba va a Sandro Penna e Giorgio Caproni ) e che cerca di recuperare un rapporto diretto con le cose in un linguaggio limpido e comunicativo, sia a quella linea definita lombarda (Vittorio Sereni, Giovanni Giudici) attenta alla riflessione morale e civile, al senso della realtà. 

All’incrocio, secondo la nostra ipotesi, tra queste due linee, Franco Melissano elabora un discorso poetico articolato su più riferimenti, da quello esistenziale a quello storico, a quello antropologico, quest’ultimo vissuto come richiamo alle origini contadine e salentine a cui Melissano sente di dovere una parte importante della propria ispirazione poetica (si veda in proposito Cielo del Sud p.73). Non a caso nelle sue due raccolte precedenti Melissano ha scelto il dialetto come lingua etica e come anima fonica dei propri versi. 

Lo stesso Autore, del resto, nella sua prima raccolta A ccore pertu, riconosce e attribuisce al vernacolo tre pregi: l’efficacia espressiva di certi termini, spesso intraducibili in italiano; la maggiore aderenza del dialetto “alla sfera dell’irrazionale”, al materno, all’emotivo, all’incontrollabile; la necessità di salvaguardare il dialetto dall’attacco multiplo della globalizzazione. 

Evidente dunque un’esigenza del poeta di misurarsi con gli aspetti per cosi dire reali e realistici dell’esistenza, con la concretezza del quotidiano, di fare della poesia uno strumento di conoscenza più estrinseca che intrinseca, più incline all’immediatezza e all’incisività del linguaggio, che sono due caratteristiche del dialetto, non a caso scelto come lingua della prima produzione poetica. 

E questa esigenza permane integra anche nella presente raccolta in lingua italiana, dove Franco Melissano sceglie una dimensione poetica più intima e riflessiva che si esprime in una lingua densa ma mai ermetica, e che lo riconferma profondo conoscitore dell’animo umano  (Dopo il naufragio, p.94) e filosofo del quotidiano (Gabo è tornato a Macondo, p.82), ma anche attento cantore delle proprie radici (Lieve e pungente, p.104) e della coscienza storica e civile (Nemmeno un cireneo, p.78, Purpureo fiore nel fango, p.96).

Come già le due raccolte in dialetto, anche questa rivela, a livello linguistico, l’attenta ricerca lessicale dell’Autore, la sua particolare predisposizione a manipolare la lingua per spostare, combinare e ampliare i significati della parola trasformandola in parola poetica, attraverso note figure di significato: la metafora, spesso presente, come in Ciclista (p.98), in Non omnis moriar? (p.75), ma anche la metonimia, come in Favelas (p.81), in Sant’Andrea (p.57), e la similitudine come in Qual acqua salsa (p.70), e persino  l’iperbole come in Scirocco (p.57), solo per citare alcuni esempi a titolo esplicativo. Naturalmente il poeta fa ricorso in maniera simultanea, conseguenziale e non sempre conscia ai vari livelli di espressione e di significato, ma l’analisi dettagliata del lettore può disvelare almeno una parte del complesso meccanismo che anima il suo poetare, aprendo ad un dialogo più intenso e profondo con il testo.

Melissano svolge il proprio esercizio poetico con consapevolezza etica e teoretica, come testimoniano i versi di Non omnis moriar, dove egli si interroga sul senso dell’esistenza attraverso il senso della poesia e cerca una risposta nella pratica stessa del poetare e nello scorrere del tempo “che toglie al fato il velo”. Tra tempo e poesia la vita scorre tra le dita come un “mozzicone di speranze” e al poeta rimane il compito, oneroso e leggero, di raccontarla in un soffio, in un respiro. Tuttavia, per raccontare la Vita non basta la Storia, con le sue cocenti delusioni e contraddizioni, ma occorre andare su un altro terreno, quello dominato dall’Amore e dai suoi misteriosi legami con l’Essere.

L’amore e il tempo costituiscono gli unici strumenti a disposizione del poeta per raccontare la Vita ed è perciò che quest’ultima raccolta di poesie, che chiude un’ideale trilogia con le due precedenti raccolte in dialetto A ccore pertu (2013) e Carasciule te stelle (2014), accredita Franco Melissano come poeta autenticamente ispirato, vero viaggiatore del tempo perché aperto alla tentazione dell’Essere oltre che della Storia.

Anna Stomeo

sabato 26 marzo 2016

Frizzante marzo per Itaca Min Fars Hus con Amor Mortis e in Poesia - baratti di musica e versi


STINGING  MARCH for Itaca Min Fars Hus
Due grandi eventi per ITACA MIN FARS HUS in questo frizzante mese di marzo 2016
Amor Mortis l'8 marzo e in Poesia il 21 marzo


L’8 marzo  in occasione della festa della donna. è tornato Amor Mortis, voci di donne tra albe tramonti, ormai uno spettacolo cult di Itaca Min Fars Hus, nell’interpretazione esclusiva della sua autrice, Anna Stomeo, che lo ha scritto nel 2013 e per due anni lo ha portato in scena con Barbara Castrignanò, e oggi è tornata ad interpretarlo da sola in un gioco di voci unico e suggestivo che alterna canto e recitazione, emozioni e riflessioni senza soluzione di continuità.


ITACA MIN FARS HUS Gruppo Teatrale di Sperimentazione



AMOR MORTIS - Voci di donne tra albe e tramonti 
di e con Anna Stomeo



Foglio di Sala



Attraverso l’evocazione di ancestrali sonorità mediterranee lo spettacolo, scritto e interpretato da Anna Stomeo, racconta storie di oggi smarrite tra esordi e declini, tra apparizioni e sparizioni, tra amore e morte. 



In una sola donna parlano più donne e lo fanno ricorrendo alla testimonianza diretta, ma anche all’evocazione del passato  e alla suggestione del  mito, in una sorta di tempo sospeso in cui l’alba si intreccia al tramonto, la speranza al disincanto, l’illusione alla disillusione. 



Una sola voce sembra moltiplicarsi per raccontare “a più voci”  storie di donne che hanno incontrato la violenza dei loro uomini e ne sono state vittime, fino a percepire fino in fondo, sul proprio corpo, il legame tra amore e morte, intesi non più solo come poli che, inevitabilmente, si contrappongono nelle forti passioni, ma quasi come ineludibile destino che sembra sopraffare la vita delle donne nel presente non meno che nel passato.

In un continuo fluire di suoni, parole e canti, la voce rievoca sensazioni, affetti, paure, odi e amori, fondendoli e confondendoli con le immagini mitiche e con i richiami ancestrali che riportano la femminilità ad una dimensione originaria di incontro e di fusione con la natura. 
Il dolore delle donne che subiscono violenza e che sono maltrattate e uccise dai loro stessi uomini diventa, allora, occasione per una riflessione più profonda, che vorrebbe andare oltre l’indispensabile denuncia del “femminicidio”, per affrontare l’animo femminile nella sua espressione più autentica.

Fondamentale, in questo senso, il richiamo al mito e a ciò che la sua narrazione comporta in termini di comprensione della realtà umana e naturale. 

Demetra, Medea e Cassandra sono le eroine mitiche, portatrici di una cultura del corpo e della terra, venute dal passato a testimoniare nel presente l’atavica sofferenza delle donne.  Attraverso le loro storie e le loro voci il mito si ribalta e rivela la sua valenza nel presente.
Demetra, Terra Madre, massima espressione della soggettività femminile, emerge come simbolo della capacità delle donne di generare sulla base di una scelta che la prevaricazione del potere maschile di Zeus trasforma in mera funzione riproduttiva. 

Il mito di Demetra definisce la stretta corrispondenza tra le stagioni dell’anima e quelle della natura, rappresentata dal ciclo naturale della Vita e dal suo evolversi e degradare, tra nascita e morte, tra disperazione e speranza.

Accanto a Demetra, l’immagine di Medea e l’immagine di Cassandra emergono nitide a testimoniare due modi differenti e tragici di affrontare il dolore femminile di fronte alla presa di coscienza della prevaricazione subita e all’enigma del continuare ad amare il carnefice che l’ha prodotta. 

Nelle voci delle donne che danno vita allo spettacolo il dolore si fa sospiro e il sospiro si fa canto. 

Sospirare e trasformare il sospiro in un canto liberatorio, sembra la sola alternativa alla rassegnazione e al silenzio cui sono state condannate per secoli le donne.

Le sonorità griko-salentine si mescolano a quelle mediterranee e orientali sollecitando emozioni ancestrali, in un teatro affidato esclusivamente al corpo-voce dell’attrice e all’empatia.
Nel profondo lavoro di training, che ha preceduto e accompagnato la nascita dello spettacolo, gli aspetti atavici e biologici della vita delle donne si sono inevitabilmente intrecciati agli aspetti storici, sociali e psicologici, facendo emergere immagini femminili contrapposte e nello stesso tempo, convergenti e dando luogo ad inattese soluzioni sceniche e drammaturgiche.
Importante, nell’elaborazione dello spettacolo, è stato l’incontro con le tematiche del Progetto del Terzo Paradiso teorizzato dal grande artista contemporaneo Michelangelo Pistoletto, nel quale si auspica il passaggio ad un nuovo livello di civiltà caratterizzato dall’incontro tra natura e artificio e dalla nascita di una nuova dimensione etica e culturale.

Le suggestioni derivate dalla conoscenza di questo progetto hanno influito in modo notevole sul lavoro drammaturgico: la trasformazione globale del Terzo Paradiso si è rivelata nella speranza in una rigenerazione realizzata dalle donne e in grado di sconfiggere anche la violenza di genere e l’ossessione del “femminicidio”.

Di qui l’emergere, tra le pieghe dello spettacolo, di una “cerimonia collettiva” sottolineata dalla ritualità dei gesti e dal risalto dato ad alcuni archetipi e oggetti simbolici – l’Acqua, la Pietra, il Mare, la Terra – che richiamano la nascita e la rinascita della Vita oltre la violenza e la morte.

     gli uomini, esclusi dal generare la vita che è esperienza esclusivamente femminile (esclusi dal segreto), trovano nella morte un luogo ritenuto più potente della vita in quanto la vita toglie.                                                                                        
                                                                        (Adriana Cavarero, Nonostante Platone.1990)
Perché in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa da un marito, un fidanzato, dal compagno o ex compagno di anni di vita, spesso padre di figli cresciuti insieme? […]
È una guerra.Che va combattuta.
(da Questo non è amore, la 27esima ora, 2013)
Il Terzo Paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità in questo frangente epocale.
                                                        (Michelangelo Pistoletto,  Il Terzo Paradiso, 2003-2012)


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Il 21 marzo, come di consueto, Itaca Min Fars Hus ha festeggiato la Giornata Mondiale della Poesia con i baratti di musica e versi  tra attori musicisti e poeti ma, quest’anno, lo ha fatto in modo davvero speciale, grazie al   alla  collaborazione con l’Associazione Multiculturale PHILOS e l’Associazione Culturale RAPSODIA 8.9 e il patrocinio della Città di Martano. 
Insieme, e con la partecipazione di UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali),  le tre associazioni hanno commemorato anche la Giornata Mondiale contro il Razzismo con la partecipazione dei rifugiati politici e richiedenti asilo che hanno partecipato con le loro composizioni musicali e il Coro Multiculturale Rapsodia di Voci, nato dall'esperienza del Laboratorio di Canto e Poesia organizzato dall'Associazione Culturale RAPSODIA 8.9 e diretto dal musicista Gaetano Fidanza
È stata una bellissima festa, all’insegna del riconoscimento della poesia come parola autentica di dialogo e di relazione, luogo privilegiato della comprensione della solidarietà, contro ogni forma di sopraffazione e di discriminazione. 
In un gioco di suoni e parole attori, musicisti e poeti di diverse culture e nazionalità hanno scambiato le rispettive emozioni e riflessioni e barattato i propri versi e le proprie musiche, in un contesto di grande partecipazione di pubblico e senza soluzione di continuità tra spazio scenico e platea, come nella tradizione di ITACA MIN FARS HUS.

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martedì 12 gennaio 2016

Bruno Epifani, poeta sospeso dell'oltre. La recensione di Anna Stomeo alla poesia di Bruno Epifani

BRUNO EPIFANI poeta sospeso dell’oltre

L’esperienza poetica di Bruno Epifani fu breve e intensa, bruscamente interrotta dalla malattia e dalla morte, intervenute, come sempre, ‘sul più bello’, proprio quando, in lui, maturazione e maturità stavano per convergere completamente, concretizzandosi in una produzione poetica sempre più consapevole e complessa.

Nato a Novoli (Lecce) nel 1936, morì nel 1984 a 48 anni, lasciandosi alle spalle, insieme ad una giovane moglie e due figlie bambine, un percorso di vita non certo lineare e scontato, nel quale la poesia era stata idea mitica e costante apprendistato, universo esistenziale da costruire e costruirsi intorno come ipotesi alternativa al quotidiano, come via di fuga e, nello stesso tempo, di permanenza.

Bruno aveva gli occhi azzurri e limpidi che guardavano lontano per vedere oltre la vita pigra e assonnata della provincia salentina, perciò, sin da giovanissimo, come tanti della sua generazione, si era impegnato a promuovere nel suo paese circoli culturali e iniziative di rinascita e di riscatto, con risultati spesso positivi, ma mai, per lui, pienamente soddisfacenti. 

Dopo la laurea in lettere, con una tesi su Tommaso Fiore (già allora mitica figura di intellettuale meridionale e meridionalista) aveva scelto l’insegnamento non solo come unica via di sopravvivenza, ma anche come umile esercizio etico, giacché aveva scelto anche di insegnare in quelle che, ancora negli anni Sessanta del secolo scorso, la scuola italiana istituiva come “classi differenziate” destinate agli “svantaggiati” dalla natura e soprattutto dalla società. 

Poi, dalla metà degli anni Settanta, Bruno decide di insegnare nelle scuole italiane all’estero e si trasferisce prima a Il Cairo nel 1975, dove lo segue la moglie con le due bambine, e poi a Barcellona. Non una fuga, ma una sorta di esilio volontario scelto quasi come espiazione di una colpa di appartenenza di cui Bruno si sentiva, allo stesso tempo, artefice e vittima. Un rapporto che, semplicisticamente. potremmo definire di odio-amore con la sua terra, storicamente e sociologicamente troppo ”connotata”, ma che in realtà è, a guardar bene, un rapporto con se stesso con le proprie aspirazioni, le proprie vittorie e le proprie sconfitte, le proprie battaglie.  

Autore di tre raccolte edite, di cui una sola in vita (Epistolario Salentino, Lecce,1967, Editrice L’Orsa Maggiore) e due postume (Una terra d’origine, Caprarica di Lecce, 1986, Editrice Pensionante de’ Saraceni e Alle radici di Eva Lecce 2014, Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l.) entrambe dovute alla cura amorevole della moglie Maria Rosaria Savoia, Bruno Epifani appare un poeta sospeso, che avrebbe ancora avuto molte parole da scoprire e da offrire a chi, leggendolo oggi, non può sottrarsi alla percezione di una sottigliezza semantica e di una ricercata eleganza stilistica, tanto da avere l’impressione di trovarsi di fronte a un poeta colto e vigile, attento a coniugare costantemente l’ispirazione alla sperimentazione e alla ricerca linguistica.

Proprio perciò Epifani non è poeta facilmente collocabile anche all’interno di una presupposta “linea salentina”, che, secondo una formula di Ennio Bonea, accomuna, in un unico universo semantico e immaginativo, quei poeti che, sulla scia di Vittorio Bodini, hanno guardato al Sud come “zona di comune attingimento” e come luogo esistenziale ritrovato e costruito di visioni e passioni. 

Il piano simbolico, codificato dal linguaggio, definisce in realtà un sistema di rapporti economici e sociali concreti relativi al Sud del secolo scorso cui molti Autori Salentini, capofila Bodini, fanno riferimento. Il rischio dell’approccio del lettore a questo Sud e a questa poesia (per Epifani in particolare mi riferisco alla Terra d’origine) è quello di rinchiudere i singoli poeti all’interno di etichette collettive limitanti da cui si esce soltanto con l’analisi testuale specifica guardando all’universo poetico del singolo Autore. Esattamente quello che abbiamo cercato di fare con questo approccio analitico ai testi di Bruno Epifani, un approccio alimentato tuttavia da una lettura creativa e coinvolgente, attuata attraverso gli strumenti della ricerca e della sperimentazione teatrale, che ci consente di cogliere l’eco individuale e collettiva dei versi di Epifani

Sicuramente il Sud di Epifani è popolato, in maniera quasi ossessiva, dai fantasmi bodiniani, (dalle donne nere ai tramonti infuocati), specialmente nelle prime due raccolte, tuttavia c’è, nella poesia di Epifani, un’inquietudine che va sicuramente al di là delle immagini evocative per farsi riflessione autentica sullo stare e l’andare, sulla permanenza e il viaggio, sulla terra d’origine e la terra straniera di accoglienza e rifugio, percepiti come dilemmi dell’animo più che come semplici scelte, al di là delle collocazioni geografiche ed esistenziali.

In questo senso il Sud di Epifani è tutto collocato all’interno di una dinamica dell’essere che coincide con l’universale e l’antropologico, fino a proporsi, nello stesso tempo, come meditazione profonda, come atto valutativo, come esercizio d’incanto/disicanto che si fa intima considerazione sulla vita.
Ed è proprio questa raccolta a dimostrarlo. L’ultima, purtroppo, dopo le prime due, che ci viene ora consegnata in questa edizione con la prefazione di Carlo Alberto Augieri, in cui, già nel titolo, Alle radici di Eva, si fa deciso e determinato il richiamo antropologico e si conferma definitivamente l’archetipo della terra d’origine della precedente seconda raccolta.

Per Epifani, come già, a suo tempo, ha sottolineato Ennio Bonea nella Introduzione a Una terra d’origine,  la terra rappresenta una sorta di anello di connessione, di momento centrale nel trinomio donna-terra-mare che sembra essere alla base dell’ispirazione del poeta salentino e che comunque si lega ad una percezione poetica diffusa nel contesto poetico immaginativo di molto Novecento e non solo. Dalla terra muove infatti un’esigenza cognitiva che si realizza attraverso l’inevitabile richiamo erotico alla donna, come soggetto altro di un’intima comunicazione, e al mare come simbolo, diremmo freudiano, di instabilità e di certezza primigenie.

Le 25 poesie di questa raccolta sono tutte, in modo evidente, dedicate ad una donna che si percepisce, a intermittenze, lontana e vicina, poesie che la moglie Maria Rosaria (che con quella donna è identificata e si identifica) ha conservato per trent’anni come intimo e personale segreto, fino a decidersi, se non a rivelarlo, sicuramente a comunicarlo, come tale, come semplice e indecifrabile segreto, oggi a tutti noi. Le “radici di Eva” si intuiscono nella bellissima introduzione della stessa Maria Rosaria alla raccolta quando afferma, con profonda semplicità, di essere rasserenata dal “pensiero che un poco seppe dare lenimento ai suoi tormenti la concretezza della mia presenza”. Dice proprio così, richiamando un passaggio di una poesia scritta al Cairo (tu soltanto concreta sei e certa in me ). Ma le “radici di Eva” richiamano anche un universo semantico che ci riporta direttamente alla “costruzione del senso”. 

Come spiega acutamente Carlo Alberto Augieri, nella profonda e analitica Prefazione, il lessema “radice” costituisce una “parola emblematica” per comprendere la poesia di Epifani nella sua interezza, nel suo essere mossa dall’ansia di un ritorno ancestrale all’origine, alla “verità profonda dell’animo”. Dunque le “radici di Eva”, come anche il richiamo archetipico ad Adamo, sottolinea Augieri, non sono simboli di un rimpianto Paradiso terrestre, ma condizioni permanenti di un esistere consapevolmente dopo la caduta del Paradiso terrestre, spingendosi verso una terra promessa che si identifica con la costruzione  del senso. Il che fa di Epifani, per alcuni aspetti, un poeta postmoderno dell’oggi, che, come sottolinea ancora Augieri, parla a un tu per parlare al mondo e intuisce e concretizza l’alterità, oltre l’identità conclamata della terra d’origine, oltre il rischio di una chiusura di orizzonti all’interno di un universo immaginativo peraltro scomparso.

Il Sud di Epifani è, come quello di Bodini, un luogo dell’anima (per dirla con James Hillman ) e questo luogo dell’anima SI RIGENERA ogni volta trasmettendosi alle nuove generazioni. 

C’è una vena, nella poesia di Epifani, che, filosoficamente, mi piace definire esistenzialista, relativa alle considerazioni sull’esistente e sul nostro “essere gettati” nel nulla dal nulla, intenti a quella che Heiddeger definisce la cura. È vero che, come dice Augieri, “la ragione dei poeti non è il logos dei filosofi», ma c’è tuttavia un’esigenza di riferimenti più ampi quando ci si accosta alla poesia, specialmente a quella del secondo Novecento Salentino, quasi la necessità di spiegare, per evitare il rischi di anguste collocazioni.

Nell’ultima poesia della raccolta, dedicata all’amico Carlo Alberto (Augieri), a sua volta prefatore della raccolta, Epifani si appella, senza infingimenti, ad una “pietà di vivere”, sia pure definita “furtiva”, come unico sbocco alla «Nuova Angoscia – carcere alla nostra anima- che ci giace a fianco», all’ «ineluttabile trascorre(re)» del «nostro giorno infingardo», della «precaria» «nostra sorte di uomini».


Un messaggio finale struggente e denso in cui si concentra il senso universale  di quell’inquietudine dello «zingaro dagli occhi celesti» come lo definisce ancora la moglie,  la sua «indomita follia di inseguire sempre il suo destino» e «a dare voce alle sue pene e a quelle del mondo che lo circondava».

C’è, per la forza degli eventi, ma anche per una scelta personale, un senso del fare poesia che scaturisce solo dalla morte e dal silenzio, come dice Andrea Zanzotto. Questo senso è recuperabile a nostro avviso facendo appello a quella compresenza dei morti e dei viventi di cui in altri contesti parlava Aldo Capitini. I versi di Bruno parlano di per sé, indipendentemente da ciò che noi ci costruiamo attorno.

Una volta che il tempo ha fatto il suo lavoro, delle sofferenze di Bruno non rimangono che questi versi, limati, eleganti ai quali lui ha consegnato la sua memoria.

Non le altre sofferenze, gli altri abbandoni a cui la vita, quando c’era, lo ha costretto.

UN POETA CHEDE DI ESSERE GIUDICATO PER I SUOI VERSI.

Il maledettismo di Bruno Epifani, se c’è, è autentico, perché pura coincidenza di poesia e vita.
E anche la storia del Salento, che compare continuamente tra i versi, è richiamo ancestrale più che sola memoria: i Turchi saraceni, i Messapi, lo Jonio antico sono miti che popolano il presente senza la pretesa di spiegare il passato, sono personaggi di quell’altrove la cui scena Epifani continua ad abitare, nel suo andare ormai eterno  «sulle rotte della terra promessa».

Anna Stomeo - luglio 2015